Al giorno d’oggi, chi è che non si fa un selfie? E chi è che non ironizza sulla mania di farsi i selfie? E chi è che non va a sbirciare i selfie degli altri? E chi è che non irride, o biasima, o deplora, o bolla i politici contemporanei per la loro tendenza vanesia al selfie contrapponendone l’esibizionismo finto-democratico alla buona, sana, ascetica riservatezza dei grandi politici di una volta? E chi è che non deroga a tale severa bocciatura degli egocentrici leader postmoderni in favore di un elogio più o meno esplicito alla semplicità comunicativa, alla freschezza espressiva ed alla disponibilità relazionale del Pontefice, così umile, spontaneo e diretto da non disdegnare questo e quel selfie con questo e quel passante più o meno devoto? La parolina alla moda, così come la pratica trendy che indica, contiene un mix di immediatezza e autosufficienza: basta che la pronunci o la scrivi e subito produce da sé un agile corredo semantico, un comodo bagaglio di derisioni condivise, una confortevole socializzazione del dissenso spiritoso. Chi dice “selfie” dice “danno autoironico”. E, spesso e volentieri, aggiunge una considerazione inoppugnabile: “Ma perché non si chiama più ‘autoscatto’ ”? Ah, saperlo! Ma, intanto, domandarselo fa scattare l’empatia da social network, l’intesa cinguettante, la fratellanza 2.0. Immagino che esistano, su Facebook, diversi gruppi no-selfie: uno avrà offerto la tessera onoraria al Papa. Enzo Costa
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