Figuriamoci se qualcuno può negare il disagio. Innanzitutto perché il disagio, obiettivamente, evidentemente, drammaticamente, c’è. Incongruo, in questo spazio (mal)umoristico-lessicale, spiegarne le ragioni, misurarne le dimensioni, prefigurarne le degenerazioni. Che poi sono quelle che sapete, meglio di me. Ciò che qui si può scrivere è che il disagio, o almeno certo disagio, ad un certo punto lo ammettono tutti. Per esempio, nel punto in cui una situazione socialmente esplosiva, magari in periferia, esplode. È qui che se ne prende atto all’unisono, con buona fede e rincrescimento variabili. E intenzioni di risoluzione più o meno credibili. Perché, davanti a certo insostenibile disagio, c’è solo una cosa più insopportabile della distrazione o dell’incapacità di chi avrebbe dovuto provvedere e rimediare prima (ammesso che tutto quanto fosse rimediabile), ed è il “preoccupato” e gongolante rimarcarlo dell’interessato e scattante disagiòfilo di turno, spesso politico o anti-politico di professione. E imprenditore del disagio di vocazione: reduce da antiche o recenti sparate atte a creare, culturalmente, le migliori condizioni per il proliferare di insofferenze e intolleranze, eccolo sguazzare cupamente felice nelle sofferenze e intemperanze fra poveri: lui il disagio lo nomina, lo dice, lo ribadisce, lo sottolinea, lo enfatizza, lo fomenta, lo incrementa, lo alimenta con oscena voluttà. Finché vedendolo proveremo, a dir poco, disagio, non tutto sarà perduto.
Enzo Costa
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