Il segnale, per definizione (e per elezione), è arrivato. O meglio, si dice che sia arrivato. Lo dicono qualche volta gli sconfitti (qualche rara volta da noi, dove non perde mai nessuno; qualche volta meno rara all’estero, dove perde persino Obama). Lo dicono sempre tutti quanti o quasi, nei casi sempre più frequenti e inquietanti di astensionismo. Dove il “quasi” si riferisce ad una certa tendenza del vincente di turno a dirlo, che il segnale è arrivato, sottovoce, o en passant, oppure - da ultimo - derubricandolo a dato secondario rispetto al dato primario (il fatto che lui ha vinto). Mentre, al contrario, chi è reduce da una sconvolgente tranvata elettorale tende, quel segnale, a enfatizzarlo, ad amplificarlo, a drammatizzarlo a parole, toni vocali ed espressioni facciali, da sempre per sviare l’attenzione dalle proprie percentuali in picchiata, da ultimo per imputare al vincente di turno, solo ed esclusivamente a lui, la diserzione collettiva dai seggi. Ma, in ogni caso, il segnale è arrivato, come da dichiarazioni automatiche nella notte dello spoglio. E da ripetizioni già meno univoche e sistematiche dell’indomani. Tempo due-tre giorni, e il segnale si perde nello spazio, come quello di certe scalcinate radio libere della nostra adolescenza. A ben pensarci, poco male, giacché la retorica politico-mediatica del segnale che è arrivato, col suo vezzeggiare furbesco qualsivoglia elettorato latitante, non è un granché. E magari è pure un segnale di qualcosa.
Enzo Costa
LEFT 07/12/14
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