Giacché la musica - se non finita - è sospesa, vogliate gradire l’intermezzo pubblicitario, che però non è una cosa terra terra: nel senso che vi tocca alzare po’ lo sguardo, per ammirare lo svettante torrione del Carlo Felice riconvertito in maxischermo uso consigli per gli acquisti. Meglio: in spazio occupabile con spot assortiti, al momento sostituiti provvisoriamente da una Marilyn stilizzata, un Puccini warholiano e un albero di Natale impomatato (temo di aver scambiato gli aggettivi, ma le immagini, si sa, attraggono e distraggono). Icone più o meno fuori mercato, messe lì a mo’ di esca per creativi metropolitani pronti a sostituirle con rutilanti spot di brand trendyssimi. Insomma, anche il Tempio della lirica genovese si apre, perlomeno sull’esterno, ai mercanti, e non c’è ombra di potenziale Salvatore che osi anche solo pensare di cacciarli. E’ la crisi, bellezza, e tu non puoi farci niente, tantomeno darti a prediche moraleggianti contro la decadenza dell’Arte in balia di compositori di jingle per carta igienica, o di scrittori di slogan per detersivi: se 10 piani di morbidezza consentono una Traviata, e le Valchirie sono gentilmente offerte dal bianco che più bianco non si può, come puoi storcere il naso? Puoi, al più, graduare il giudizio sui controversi rapporti fra Cultura e Denaro, modulare le valutazioni, in una parola: distinguere. Per esempio, tra esterno e interno: un conto sono le rèclame proiettate sulle facciate di un teatro dell’Opera, un altro – questo sì pesante, al limite dello sbancamento etico – le auto fiammanti posteggiate in zona a vendita illimitata nell’Ara Pacis. O ancora, puoi guardare, laddove lo impongono i lavori in corso, al di là del sipario dei ponteggi: appurare, cioè, che le gigantografie pubblicitarie intente a pararsi davanti a questo o quel monumento in restauro, siano solo un preludio a tempo determinato in attesa della rinnovata fruizione del bene artistico, e non un’eterna paratia griffata di un’opera più incompiuta della Salerno-Reggio Calabria.
Fermo restando il pensiero sconsolato che l’eventuale avanzare insieme salvifico e famelico del Privato è un indotto del sonnecchiare molesto e funesto del Pubblico, de “la cultura non si mangia” di tremontiano delirio, dei tagli al Fus del ministro (allergico) alla Cultura, letali quasi quanto le sue poesie. Ecco: a ben pensarci, l’opera nefasta di chi sgoverna è il vero marchio dell’attuale disastro culturale. Perché non esporlo accanto agli altri marchi? Non sarebbe male che sul torrione del Carlo Felice, fra Coccolino e Cicciobello, venisse proiettato anche il faccione di Bondi, con il seguente, accattivante slogan pubblicitario: “Agli spot siamo costretti: son di Bondi tristi effetti!”.
Enzo Costa
Repubblica Genova 27/12/10
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