Va detto che Giovanni Toti ha una parlata fluente. Va detto che è
fluente come un corso d’acqua esondato. Ma non con
un’esondazione rapida e potente, di quelle che ti (s)travolgono.
Con un’esondazione lenta e costante, di quelle che quasi non te
ne accorgi: un placido valicare gli argini in virtù del quale, piano
piano, ti ritrovi inguazzato in una palude in cui rischi di affogare a
tua insaputa. La logorrea slow del facTotim di Arcore mi ha
giocato uno scherzetto del genere durante la sua ospitata a Che
tempo che fa: ha iniziato a dire rallentatamente ma
inesorabilmente la sua, una sua densa e opaca, magmatica e
afasica, incurante delle interruzioni-interiezioni di Fazio, e io,
senza rendermene conto, via via sommerso da quell’informe
flusso sonoro a bassa velocità, mi sono assopito. O meglio, sono
sprofondato in un dormiveglia asfittico e onirico insieme, cullato
da liquide litanie, lontane e arcane (“È il Pd che deve risolvere le
sue contraddizioni” o forse era “concentrazioni” oppure
“combinazioni”). Mi hanno svegliato le sparate scatologiche della
Littizzetto. Due giorni dopo, a Ballarò, mi ha fatto lo stesso effetto
semi-letargico. Solo che a strapparmi più spesso dalle braccia di
Morfeo c’era Belpietro, impegnato da contratto a dare
ferocemente sulla voce al piddino Speranza. Ruolo, quest’ultimo,
più tipico della destra politico-mediatica (oltre che del
pentastellato Di Battista). Perché va detto anche questo: Toti,
rispetto ai berlusconidi storici, è antropologicamente eccentrico.
Per oratoria e per curriculum: arriva dalla direzione del Tg4, ma
dopo che Fede aveva portato via meteorine e book fotografici. È
stato nella sala del bunga bunga, ma solo per (di)mostrare,
tramite reiterato speciale Mediaset, che era una linda tavernetta
per figli ed educande. Enzo Costa
l'Unità 14/04/14
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