Quand’ero piccolo, lo schermo era piccolo tutto l’anno nel tinello o in salotto, e grande nelle fumose sale invernali e nelle sudate arene estive. Distinzione dimensionale rispecchiata dalle unità di misura (“pollici”, sentivamo dire dagli adulti per il Totem in bianco e nero, affrettandoci, appena soli, a ricoprirlo tante volte col più grosso dei nostri ditini quanto la cifra svelata da papà; “metri?” “chilometri?”, ci chiedevamo, fatte le indebite proporzioni, per il telone bianco che accoglieva colorate avventure di uomini o disegni animati). Eppure, Sacro e annessa meraviglia erano inversamente proporzionali all’estensione: il grande schermo pativa già la profanazione del tempo, di un’abitudine pluridecennale alla sua presenza che lo esponeva a una fruizione irriguardosa e rumorosa, anche perché collettiva. Il piccolo schermo, invece, godeva della venerazione riservata a un Idolo nuovo, degno di un culto assorto e silenzioso, confinato nella ristretta comunità religiosa detta famiglia, riunita nella catacomba casalinga. Oggi è un’altra storia, se non un’altra fede. A partire dalle misure. Lo schermo, quello di salone, stanza da letto, soggiorno, bagno, garage, ma anche di monolocale, è obbligatoriamente “maxi”. La casa è un maxischermo, anzi più maxischermi, con più o meno spazio intorno. La comunità religiosa famiglia si è dispersa nella catacomba a seguito di più scismi: uno per maxischermo, con o senza dolbysurround, con o senza cristalli liquidi, gassosi, aeriformi. Ogni membro esclusivo della setta contempla il proprio Totem esclusivo, ma la diaspora ha causato desacralizzazione: trasferite negli interni condominiali le misure degli schermi cinematografici (nel frattempo abbandonati dai fedeli in fuga), queste hanno portato con sé una devozione sbadata. La solitudine autistica del teleutente, sradicato dai riti catodici fra consanguinei, e consegnato ai propri solipsismi satellitari o terrestri, genera lo stesso disincanto che scaturiva dall’allegro casino delle folle cinefile. Vero: ci sono anche i minischermi. Quelli di videofonini, palmari, black e presto blue e brown berry: ma sono un’altra cosa. A partire dal nome, “display”, per seguitare con la visione: guardare non dico un film di Antonioni, ma i Cesaroni in uno schermo bonsai, garantisce, almeno a quel luddista del sottoscritto, la cecità. Più si guarda, meno si vede e si vuol vedere, e ciò, per certa fiction, certe opere prime o ennesime, certi cinepanettoni o cinecolombe, è un vantaggio. Ma prima di tutto, cronologicamente, c’era la “donna dello schermo” di dantesca memoria. Espressione che oggi evoca una qualche velina in carriera politica, previ stage pomeridiano con corsi accelerati di Brunetta e stage notturno con corse frenetiche da Papi. Anche questa è un’altra storia. Tristissima. Enzo Costa
Un'altra Italia
L'Unità 17/07/09
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